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giovedì, giugno 21, 2007

HO FATTO [LA MIA PARTE SOVRANA]


[foto di: Marco Paba]





Per il chicco di grifo, il grumo che macina il mio corpo di sangue. Glifo del segno: è tutto doppio. E mi perdo di vista:«dov'è chiara?». Zanna stanca morde il fumo, ti appanna la lingua, ha una penna bianca. Razza mista, nuda di maschio. Per la follia mi basto – e recito.
Un nuovo modo di dire, un mondo da rifare: dammi le radici e cambia le luci. Per il palco che ha retto ogni ribalta di morte e ha piantato un chiodo: fisso. Le pelli che vesto. Recito il meus ex machina, il mea culpa e l'atto di dolore.
Recito il copione che hai scritto per me e cambio una sorte data per certa – è un dato di fatto: recito. La fiamma che brucia ogni mio letto [è una pagina rossa – che ho già scritto] s'intona al mio occhio: ogni volta è cielo. Volo via. La mia natura pericola: è in bilico. È strascico. Non si sposa, non riposa: è chiusa d'amore.
Recito nel filtro di ghiaccio che non ha prospettiva – solo dimensione.
Una zona privata: recinto. E mi muro nel silenzio: non calpestare le tagliole – voglio solo farmi male [e non sentire!]. Non ti chiedo, ho smesso presto, di capire: sono tre punti di sospensione. Il non detto che fuggo e non puoi colmare. Punti sparsi che non puoi unire – per intendere la figura. Sono ombre sovrapposte, tracce oscure nel sottotesto.
E nel tempo dell'allora? Quando cresci? Quando riesco: recito – per riscuotere le coscienze che avete impegnato. Impiegato al sistema. Un lungo tratto – e spezzo un luogo fuori di testa. Dentro il senso che è il sesto. È un fantasma malato nel castello di carte. Trascina i suoi ferri: è un mestiere [il mistero della musa].
E ancora si prova: per la pax gitana che riporta la quiete del colore, dopo la tempesta di lividi, di piedi gonfi [ti diedi i tonfi del mio ego franto].
Per la memoria che è marcia – è contro il tempo, per il fato che non, per la stima che sia, per la lingua che batte in levare, lungo la linea che è dizione. L'unica direzione che seguo: verticale. La vita parallela.
Recito e ti presento l'energia che manca: nel dono il perdono al diverso. Recito la passione, lo studio di viscere, ogni lato del prisma. Recito con la disperata serietà, col gioco di maieutica, catarsi e carisma: recito per la libertà! E non basta la parola: il corpo è un testo – Opera! Taglio a sette: colpito e affondato. Grazie al camice che è forza: mi medico. E recito: spalanco il sipario. In alto le mani: l'abile bersaglio, la chiave di bambino, la ruga del vaso che mi crepa il viso. La goccia del crono esploso. Corda stesa: per il Gabbiano che porta la croce, per l'Oblio che seduce, la miseria di Gavroche.
Recito per ogni tu che è: erede. Tutte le donne che suono. Il drappo che non cede. Il baule di Viv e la valigia dell'autore: e quanto, dimmi [se tutto se un poco] mi mancava per arrivare? Raccontami tu, quando sarai a destinazione. Quando sarò decisa: una rosa col "mal bianco" – una rosa dei venti [la sabbia e la rabbia, soffiata come polvere. Uno sparo…]
Recito per ogni calice di vero, per il nome in codice: piccola Niki e dama di forbice. Tutti i nomi che vivo. La lupa che sai, la moglie che mai. Per ogni crisi nella ruota dell'estasi: prima della prima. Che è sempre la prima – e non vuoi fine alla replica. Un'onda che si moltiplica: orgasmo dell'arena, non si argina e non si paragona!
Recito perché è oltre: il mio mondo altro, migliore, al di là della parete che non mi chiude. Per un largo malessere e un minuto benestare. Un applauso intona la sintonia: bella e buona – la famiglia che non c'era. Eroina in vena di battaglia. Imbianca per me la cura, vincere la diagnosi: e lo spettacolo dov'è? Chi mi dice: continua? Niente di nuovo. E sotto questo sole: ti lascio pedalare – hai voluto la bicicletta? Gira la tua ruota di criceto. Compro una finale: lettera che è ultima. Non muovi, muori! – per il sorriso che mi avete rubato, per ogni indice puntato, per la tortura di sentirsi sempre: refuso e sbaglio.
Un errore di vampa: uno scherzo della paura. Si rompe la doglia: oscena e pietosa – carrellata. Cancello. Non si trapassa: e il perché – si evita.
Quando tace la voce, ti ricamo la luce: uno scatto in bianco e nero. Io recito il contrasto e l'estremo: il mio limite mi esclude da ogni comune: parola che. E normale – mai. La retta via è precisa per voi. Ho una corolla di spire: medusa si guarda allo specchio [una diva petrosa] e si getta a mare. Cerchi nel piatto? No: sono solo gironi. Mancava l'ultimo. Ecco, è passato: livella l'onda perfetta. Quale carta pesta? Il blu si dispone e ritorna tavola – la legge che non accettava. Ripaga subito: il prezzo della solitudine [e mi cullo sul fondale, un pesce mi presta la pinna].
Recito il profumo che è gusto: la carne schiva, la curva della schiena. L'animale con le ali: amici di macchia. Ci diamo – senza tregua, senza taglia. Non ci pesano e non ci prendono. Recito nel luogo che è l'ago di una bilancia rotta, recito la natura, il ciclo di luna, la frase di fiele.
E la mia droga si chiama: una lingua nuova. Non mi tradurre. È la poesia che conduce. Il gesto dell'alba. E per l'utero di vento: recito il parto per spargere il mio seme – al firmamento.
Recito l'androgino, il ramo che non si declina, il metro che non teme chiosa: il patto sotto pelle, il frutto ancora verbo, costrutti non maturi, la messa di ricettori, riflesso di. È quello che.
Recito e rendo omaggio, con tributo: il futuro dell'intuito. E riporti il sacro alla comunione: messa in atto.

E cambio segnale: una nuova trasmissione.
Mio figlio chiama.





Chiara Daino
[20 giugno 2007]

1 commenti:

Anonimo ha detto...

un avinen Vivien
-Lighea o Leigh?

g.