[Andrea Valcalda, Studio per Vivien Leigh, Roma, 1997-2000]
Dice che le piace arrivare presto a teatro per restare in camerino più a lungo possibile. Ama tanto la vita del teatro che non smette mai di pensare a come è felice e fortunata a viverci. E’ disciplinatissima. In camerino tiene i fiori, i portafortuna, la stufetta elettrica, la teiera di alluminio che viaggia sempre con lei” appunta Cecil Beaton in margine al suo primo incontro con Vivien Leigh, a Edimburgo, nel novembre del 1941. Dietro le quinte di The Doctor’s Dilemma Beaton, completamente soggiogato dalla sua bellezza, aveva appena scattato una delle fotografie memorabili dell’attrice. Dall’alto del suo torbido feticismo decadente, la aveva colta con occhio voyeristico en interieur fra spazzole, bocce di profumo, tubetti di crema, astucci e portacipria, preda di un gioco di specchi in cui chi vede, Vivien, certo, oppure Jennifer Dubedat, oppure Vivien come Jennifer Dubedat, l’eroina della commedia gibishawiana, vede nello stesso tempo anche la propria perdita, il sé divenuto altro, un doppio di Narciso in colletto di pizzo il cui volto stupito riaffiora come da un sogno che rompe la fissità alla sua immagine, e che rinasce, perturbante, dentro ad altre immagini: Vivien che osserva Jennifer che osserva Vivien osservare Jennifer davanti a un’icona, il mezzo busto di Vivien Leigh in basso sulla destra, cui ogni cosa o persona lì dentro sembra affidare la memoria di un’identità mancata - nonostante la presenza in controluce, anch’essa di rimbalzo e, per giunta, solo parziale, di un fantasma nascosto nei panni di una “tranquillizzante” guardarobiera…
Penso che lei, dico lei Vivien, vedrebbe in Andrea Valcalda, revisore post-moderno dell’anima affiorata oltre il bordo di quell’immagine profonda, un suo consorte impertinente. E questo perché entrambi, a ben guardare, Vivien-Narciso e Andrea, sono vittime sacrificali di un’avvenuta trasfigurazione: per essersi spinti entrambi, appunto, in virtù della mediazione regale di Beaton, nello spazio terribile della metamorfosi, ma per aver solo Andrea birbantescamente cancellato la ragione o le ragioni originarie di questa mediazione, se è vero anche per Beaton (il cui campione d’opera è ridotto nel trittico valcaldiano a mero, inessenziale pre-testo) quanto ha detto bene una volta Malraux, e cioè che lo stile è l’impronta di ciò che si è in ciò che si fa.
E a indagare i motivi dello stile, dunque, questa configurazione di un destino morale, si scopre che per Andrea esso non è affatto un telos formale, un movente per così dire in re della tensione creativa, ma il precipitato di una crisi storica che chiede il rovesciamento del rapporto tra opera e fruitore. Grazie al suo lavoro di perversione dello scatto beatoniano, Andrea azzarda in realtà un’idea dell’opera in cui la sospensione narrativa dell’immagine trova motivazioni e conseguenze in occhi estranei alla sfera artistica, in occhi, i nostri occhi di osservatori esterni chiamati a ricostituire l’opera a partire dal luogo nel quale essa ci appare, paradossalmente, dis-locata nella sua enigmatica indeterminatezza: fuoriuscita da un tempo a posteriori, e, allora, cresciuto in riflessività, rispetto alla scelta di frantumazione e ricomposizione efficacissima della foto di Beaton effettuata da Andrea.
Seguendo Valcalda fino in fondo, voglio dire: oltre i suoi singoli gesti iconoclasti - come, nel frammento centrale, la “volatilizzazione” della mano, che diventa sosia non speculare, questa volta, ma spiccato da corpo-segno, parte dell’io multiplo di Vivien/Jennifer che s’accende di vita propria e rende la persona che fu Vivien tragicamente visibile a se stessa -, si entra allora quasi senza accorgersene nel bel mezzo di un “teatro spirituale” in grado di suggerire un incessante scambio delle parti tra i protagonisti (Vivien, Jennifer Dubedat, la foto di Vivien Leigh, Cecil Beaton, la “guardarobiera”) di un’unica, sempre incompiuta apparizione. Tanto che di fronte a questo vero e proprio squartamento immaginale viene da chiedersi se non sia l’impossibilità di una prospettiva unitaria nell’opera a interrogare la nostra facoltà (ri)creatrice, e non, come parrebbe più naturale, viceversa.
Dice che le piace arrivare presto a teatro per restare in camerino più a lungo possibile. Ama tanto la vita del teatro che non smette mai di pensare a come è felice e fortunata a viverci. E’ disciplinatissima. In camerino tiene i fiori, i portafortuna, la stufetta elettrica, la teiera di alluminio che viaggia sempre con lei” appunta Cecil Beaton in margine al suo primo incontro con Vivien Leigh, a Edimburgo, nel novembre del 1941. Dietro le quinte di The Doctor’s Dilemma Beaton, completamente soggiogato dalla sua bellezza, aveva appena scattato una delle fotografie memorabili dell’attrice. Dall’alto del suo torbido feticismo decadente, la aveva colta con occhio voyeristico en interieur fra spazzole, bocce di profumo, tubetti di crema, astucci e portacipria, preda di un gioco di specchi in cui chi vede, Vivien, certo, oppure Jennifer Dubedat, oppure Vivien come Jennifer Dubedat, l’eroina della commedia gibishawiana, vede nello stesso tempo anche la propria perdita, il sé divenuto altro, un doppio di Narciso in colletto di pizzo il cui volto stupito riaffiora come da un sogno che rompe la fissità alla sua immagine, e che rinasce, perturbante, dentro ad altre immagini: Vivien che osserva Jennifer che osserva Vivien osservare Jennifer davanti a un’icona, il mezzo busto di Vivien Leigh in basso sulla destra, cui ogni cosa o persona lì dentro sembra affidare la memoria di un’identità mancata - nonostante la presenza in controluce, anch’essa di rimbalzo e, per giunta, solo parziale, di un fantasma nascosto nei panni di una “tranquillizzante” guardarobiera…
Penso che lei, dico lei Vivien, vedrebbe in Andrea Valcalda, revisore post-moderno dell’anima affiorata oltre il bordo di quell’immagine profonda, un suo consorte impertinente. E questo perché entrambi, a ben guardare, Vivien-Narciso e Andrea, sono vittime sacrificali di un’avvenuta trasfigurazione: per essersi spinti entrambi, appunto, in virtù della mediazione regale di Beaton, nello spazio terribile della metamorfosi, ma per aver solo Andrea birbantescamente cancellato la ragione o le ragioni originarie di questa mediazione, se è vero anche per Beaton (il cui campione d’opera è ridotto nel trittico valcaldiano a mero, inessenziale pre-testo) quanto ha detto bene una volta Malraux, e cioè che lo stile è l’impronta di ciò che si è in ciò che si fa.
E a indagare i motivi dello stile, dunque, questa configurazione di un destino morale, si scopre che per Andrea esso non è affatto un telos formale, un movente per così dire in re della tensione creativa, ma il precipitato di una crisi storica che chiede il rovesciamento del rapporto tra opera e fruitore. Grazie al suo lavoro di perversione dello scatto beatoniano, Andrea azzarda in realtà un’idea dell’opera in cui la sospensione narrativa dell’immagine trova motivazioni e conseguenze in occhi estranei alla sfera artistica, in occhi, i nostri occhi di osservatori esterni chiamati a ricostituire l’opera a partire dal luogo nel quale essa ci appare, paradossalmente, dis-locata nella sua enigmatica indeterminatezza: fuoriuscita da un tempo a posteriori, e, allora, cresciuto in riflessività, rispetto alla scelta di frantumazione e ricomposizione efficacissima della foto di Beaton effettuata da Andrea.
Seguendo Valcalda fino in fondo, voglio dire: oltre i suoi singoli gesti iconoclasti - come, nel frammento centrale, la “volatilizzazione” della mano, che diventa sosia non speculare, questa volta, ma spiccato da corpo-segno, parte dell’io multiplo di Vivien/Jennifer che s’accende di vita propria e rende la persona che fu Vivien tragicamente visibile a se stessa -, si entra allora quasi senza accorgersene nel bel mezzo di un “teatro spirituale” in grado di suggerire un incessante scambio delle parti tra i protagonisti (Vivien, Jennifer Dubedat, la foto di Vivien Leigh, Cecil Beaton, la “guardarobiera”) di un’unica, sempre incompiuta apparizione. Tanto che di fronte a questo vero e proprio squartamento immaginale viene da chiedersi se non sia l’impossibilità di una prospettiva unitaria nell’opera a interrogare la nostra facoltà (ri)creatrice, e non, come parrebbe più naturale, viceversa.
Massimo Morasso
re-citando, ri-sorgendo
ringrazio
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