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mercoledì, luglio 25, 2007

Se Chiara fosse Chiara

Per le parole: Marco Merlin
[e sia: GRAZIE]
Sintassi sussultoria, tra sincopi e slanci allitterativi e impasti fonici i più svariati, parole che si spezzano caleidoscopicamente immillandosi, frante da sbarre o maiuscole o parentesi in qualsiasi posizione; registri che impastano in un'unica matassa scarti sublimi e volgarità, citazioni dotte e pop, banalità e acutezze; e ancora neologismi, parodie, invettive, disarticolazioni grafiche, intarsi plurilinguistici e motivetti da canzonetta: no, non è il succinto resoconto delle strategie di un testo poetico “sperimentale”, ma lo spazio scenico verbale del romanzo breve di Chiara Daino, genovese 1981 e, manco a dirlo, artista multiforme («attrice di teatro, songwriter, traduttrice e autrice», recita la bandella). Ma chissà poi fino a che punto a senso la distinzione tra poesia e prosa nella fucina della scrittura ovvero nel teatro della voce che nasce sperimentandosi; ché qui la trama è scontata, ma non fa sconti, fino all'epilogo che tutta l'insensatezza rovescia in manifestazione muta di senso, dentro la galleria di marionette pulp che sbraitano iterando l'assurdo fino a trasformarlo in preghiera.Tutto si regge intorno all'energia del gesto che dà forma (metamorfica) alla pasta verbale: l'unico contenuto possibile, infatti, non è il gioco illusionistico dell'intreccio che tenta di farsi beffe del tempo, ma il corpo, che chiede ragione dell'eternità dentro l'usura della (nostra) storia. Il corpo o, meglio, l'arcano del corpo: fessura di carne per la nostra strategica ritirata o per la nostra improvvisa e colpevole apparizione, punto limite continuamente attraversato, prigione e trampolino verso l'assoluto, buco nero che distrugge e grande orifizio che trasforma. A noi, di volta in volta, la scelta rispetto a queste possibilità, quando scelta è data, naturalmente, al fine di imparare l'equilibrio impossibile sul filo di tale limite: corpo-confine, corpo-lama. Tutto ciò, per che cosa e detto? Per imparare, dalla presunta normalità, dalla normata presunzione di noi stessi, a sporgerci sull'insondabile banale enigma di esserci, senza pretendere di giudicare le creature (angeli dannati) che non riescono ad attutire l'impatto con il male e diventano scandalo: la protagonista del libro, malata di d.c.a. (disturbi del comportamento alimentare), è figura quasi androgina che porta su di sé, fino al collasso, i contrari (i tratti femminili dunque non vengono annullati, si acuminano a contatto con il maschile, “compreso“ in un rapporto di odio e amore), che vive nella trasparenza del corpo, quasi a diventare pura voce (lei, così talentuosa con le parole da sfiorare la salvezza con la scrittura), ovvero perfetta contraddizione che si oppone all'ipocrisia, al quieto vivere, alla narcosi della coscienza. Dico: “perfetta contraddizione“, perché non c'è lieto fine che preservi dal contagio una qualsiasi certezza, non c'è finzione da cui declamare alcuna verità: il grido mostruoso che mostra il male è interno al male stesso, perché in esso si scavi un ruolo sacrificale e dissacrante insieme.Lo schiuderci alla conoscenza di noi esseri umani ha un passaggio obbligato: la sofferenza; la nostra guarigione, una chance: la parola, il filo teso per l'acrobatico equilibrio sull'abisso. E il segreto è quello di non fermarsi in nessuna figura, in nessuno stile, ovvero nel dare continuo slancio alla fantasia creatrice, per tentare un epilogo che scavalchi la morte.

Marco Merlin in Atelier, n 46

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