«La storia del metallo è la storia della civiltà. Sono due realtà inseparabili:
l’una dipende dall’altra per il proprio sviluppo»
[citato da Vasco La Salvia in:
Archeometallurgy of lombard sword, from artifacts to a history of craftsmanship]
il massacro che sono, – sapevi chi ero:
ero tutto! – quello che mai, non hai mai visto
io ero la ferita, e didentro quel tuo scheletro
ti cavo e ti ficco – laggiù – sotto quella lapide
io sono la lama, il sogno dell’uomo
dell’uomo fiero – io sono – lo stilo
e sono il Coltello, insegno lo squarcio
nella tua vita – [ sono io, la sciabola:]
io sono la spada, la parola più Divina
tenta pure, come ti pare, tanto non puoi vincere
sono io che taglio le teste, io chi trancia il teschio
io ferisco: affondo, e posso – falciare all’istante
tutto – dipende: dalle mosse che porti. a termine
io sono la lama, sono la speranza in rovina
sono il coltello che opera: la morte in vita
io sono il bisturi, per inciso, incido per te
sono l’arma che incide chiara la parola fine
io sono l’ascia – che ti congela cadavere
sono la scure che ti secca lungo la tratta
io sono la spada, porto la voce: «timore
di Dio» – sono la spada [io esigo non esito!]
e sfilano i secoli, resti cenere – nella corrente
io resto e resterò luce, lucendo nello scandalo
del metallo che incarno, dell’acciaio che senti
come cantano i morti, com’è il coro del ferro
io sono la lama: eccome
mieto ogni tuo «giuro!»
io sono la lama: diritto, rovescio – e ti taglio!
io sono la lama, la lama – della lancia sacra
io sono la mazza, io sono il calcio in bocca
il pugno in faccia [lo schiaffo alla coscienza]
io sono l’ascia che annienta – come mosca
ogni protagonista [fine del topo per ogni poeta]
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io sono la spada: e seguo la mansione divina
[I am the sword, Motörhead, da Lupus Metallorum]
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Leggenda vuole che prima – fu: La Gioiosa. Prima. Altachiara venne prima. Così dice la Leggenda. Prima della Lama. Prima di Lemmy che è – Ora. Di mettere i puntini sulla o di Motörhead! Fioretto per il mese di marzo: smettere il fodero. Smettere il sangue: sono stanca della veste rossa. Abito da tempo – l’autolesionismo e il mea culpa, il perdono e il taglio delle braccia. Delle mie ferite, delle mie molte bocche, nel rito/ritiro, nel macero, nelle conche di silenzio. Lasciata sola, con la mia spada. E farmi male – mi è sempre riuscito bene! Alla fine, lo sapevi – tu, come tutti – ferire a morte chi ho molto amato, un Amico, non ero in grado. E tu hai calpestato – come tutti – il corpo di donna, stanca. Stanca di essere sola e solo quel corpo – di donna. E chi calpesta oggi, forgia domani: la lama che sono.
E mi spoglio di quel corpo di donna, e nudo il fodero e: guardami ora! La bella veste bianca dell’arma! È il mio corpo nuovo, è la mia lingua chirurga et MULTA – METALLA! e si prepara: quel corpo a corpo, organizza! Ora vediamo: chi orgasma…
Mi hai lasciata – come tutti – sola. Quello che non sai, che non sai ancora, che non vedi come brilla la lama – è il filo, è pronta e si prepara. E quando ti trova? Puoi scommetterci: tutta la tua ipocrisia, la tua chitarra sospesa al muro, quel tuo culo che troppe volte ti ho salvato, quella tua ganga come la cagna tanto frigida quanto mi odia, e giocati anche il diploma!, da infermiere [no! non faccio mai confusione! E l’uno e l’altro – vi verrò a trovare],… scommetti? scommettete pure!, che tanto: la spada chiara – quando promette, mantiene. E sempre ti passa: a trovare. La verità, mio caro Damocle, pende. La verità ti trova. Per dovunque continui la tua fuga. Ti trova. La verità è pazienza infinita, è goccia che ti scava. La fossa. La verità centellina l’attesa di quel solo, preciso, colpo di spada. E schianta. Te e chiunque abbandona, ma non ammazza. Non è così che si spurga una coscienza: certa merda – ritorna, perfetta perché cresciuta, da quella fogna che l’ha deietta e scaricata.
Mi avete lasciato. Sola, con le bare piene delle vostre secrete intimità. Quelle che più non volete qualcuno scopra. Avete dato l’arma in mano alla bambina. E la bambina impara, anche da sola. L’efficacia di un’arma – l’efficacia di una lingua. Che cambia: e la bambina e l’arma. E diventa: la bambina con l’arma. E imita: la bambina è come l’arma. Poi metafora e poi modifica – tutta la genetica. E la bambina è l’arma e l’arma è la bambina. E tu? Sei una spada? Sei una spada che basta per la bilancia? La patria – come la pelle – si salva col ferro! Ricordi Brenno e Camillo? Ricordi quella bambina? Estàsiati! Voce imperativa! È un’arma! Miracola! l’Essere: l’Arma! Il vantaggio che mi titilla la vittoria: io sono. E ti conosco. Io sono e vi conosco, tutti. Puoi tu? Potete, forse, dire? E dire – lo stesso – di me?
Liquidare nella follia non è semplice – quando la follia è lucida – come la spada [che senti quanto ficco la mia risata a fondo?] – dalla cute che ti calotta il cranio al corpo cavernoso che ti coccola i coglioni – farò passare la lama, prima. E la lingua, poi – sulle mie labbra, in glifo di ghigno. E farò trapassare il tuo tempo, tutto il tempo perso con te, e con tutti gli altri. E leccherò la bellezza del gesto, che non dirmi ti sei dimenticato: eri sempre al mio fianco. La spalla, sempre presente. Al mio fianco. E non: nel fianco. La spina – che lenta, nella carne, infettava. Non capii. Non volli capire. Non uccise. E si sa: fortifica. E sull’unghia di quell’alba ho capito: ero sola. Lo sono sempre stata. Sull’unghia di quell’alba – si è aperta una nuova forma. Non ero più. Non avevo più pelle, né carne, né ossa, non i piedi, non le mani, non più zigomi. Non una bocca, non uno spazio vuoto, non più il sesso né lo scheletro. Mai più: la bambina. Sull’unghia di quell’alba ero sola, ero solo: un disegno perfetto e un’anima di metallo.
«Tu non cammini, tu non ti muovi, tu fendi l’aria – di taglio»: questo mi disse, varcata l’alba, il Fabbro. E ancora: «affonda! L’elsa non ti appartiene. Nessuno ti manovra. E nessuno ti può manovrare. Mai più». E questo è l’inizio che impatta l’essere altro, l’arma una, una volta squarciata la tela – spicca e sibila e strazia! La lama, offesa, ora offende. La lama una. Con una sola, grande verità: posso combattere da sola. E da sola combatto. Ti combatto, vi combatto. E nello scontro, non scordarti: sono più dura di te, sono più dura della “vecchia bambina-me”, e sono decisamente più precisa più lucida e più furiosa di te. Io sono la solitudine. L’arte delle spada. È tardi perché qualcuno mi regali uno scudo. Sono spada e penso spada. E scrivo spada. E spada scrive la sua poetica: nel sangue. E spada pratica, pratica l’atto – dell’ultimo segreto, che l’unghia di quell’alba incise – le lettere, sul ferro battuto. Un motto, un motto uno, intarsiato:
L’IRA
decisamente: il mio peccato preferito
†
http://lellovoce.altervista.org/spip.php?article1795
http://lellovoce.altervista.org/spip.php?article1776
1 commenti:
C'è chi ha avuto ira funesta, chi ha ira molesta, chi avrà ira indigesta. E non alziamo il dito contro chi sfoggia questi peccati [fatti/finiti capitali, anche in provincia], perchè altrimenti si richia di collezionare anche invidia, accidia, e perchè no perfino lussuria.
Che le tue ire arrivino a destinazione è una certezza. Sempre.
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